Giuseppe Petronio «Poeti del nostro secolo, I crepuscolari» (1938)

Recensione a Giuseppe Petronio, Poeti del nostro secolo, I crepuscolari, Firenze, Sansoni, 1937, in «Leonardo», a. XI, n.11, Roma, novembre 1938, pp. 447-449.

GIUSEPPE PETRONIO «Poeti del nostro secolo, I crepuscolari»

Tra gli esami critici della letteratura del primissimo novecento, la presenza di essenziali discriminazioni (Serra, Croce, Momigliano, Borgese) ha ormai storicizzato e chiarito la posizione complessiva e l’entità qualitativa dei singoli “crepuscolari”, sí che non ci si poteva attendere da un nuovo studio se non una piú precisa sistemazione, un lavoro riassuntivo, piú che un giudizio nuovo, una formula rivelatrice: la stessa esiguità delle personalità poetiche, tranne Gozzano, non ammetteva scoperte e nuove valorizzazioni. è perciò che il libro del Petronio (libro fatto di quattro articoli apparsi sul «Leonardo», uno sull’«Ateneo veneto» e di due nuovi saggi scritti per amore di compiutezza) non ci ha procurato né soverchie gioie né troppo soverchi dolori. Di fronte ad autori in cui circola scarsa vita, dopo un giudizio limitativo, non ci si può mai assolutamente attendere una nuova posizione critica, un mutamento originale del gusto. è semmai sul valore storico di una poetica che l’atteggiamento critico, in vista d’una sempre mutevole e non perciò arbitraria visione dello sviluppo letterario, può apportare arricchimento e rinnovamento: sí che uno studio concreto ed organico della poetica e del linguaggio dei crepuscolari, per investigati che siano, può vivere funzionalmente allo studio della storia delle poetiche contemporanee, della trasformazione della maniera di intendere l’arte e la poesia dal romanticismo alla poesia moderna. Può acquistare cosí valore anche la testimonianza di una poesia di Civinini o di Giogeri-Contri; e riconoscersi l’interesse storico di alcuni brani del peggiore stilnovismo di Corazzini. Il Petronio resta invece ad una precisazione assai ortodossa di «scuola»: «si formano cosí quelle che noi chiamiamo scuole o movimenti letterari, ma che in realtà solo difficilmente e solo sino ad un certo punto sono letterari, ché per lo piú sono invece l’eco e il riflesso di movimenti spirituali, i quali determinano non solo la scelta dei temi, ma persino ciò che si suole chiamare la moda», precisazione che tende ad essere concretata o nell’importanza del costume (come nel Praz) o nell’importanza dell’elemento tecnico della “forma” (come nel De Lollis). La precisazione di “poetica” come di uno studio già intenzionalmente artistico permette l’eliminazione della condanna moralistica di una eccessiva fissazione antistorica di un puro sviluppo di mestiere. Parlando troppo di storia dello spirito, della cultura (nella accezione usata dal Sapegno per lo Stil nuovo), il P. non chiarisce la natura letteraria della poetica, l’intenzione artistica che non si risolve direttamente in costume o cultura o spiritualità. Cosí che, mentre si preoccupa di spiegare l’atteggiamento morale dei crepuscolari (e in realtà non affonda il suo esame fino ad una conclusione valevole storicamente, mentre gira nel circolo vizioso di spiegare col costume una posizione letteraria che gli serve in sostanza di unico documento di quel costume), non ci motiva sufficientemente il loro atteggiamento in quanto letterati, non risolvendosi né ad una accettazione brutale di questa poesia come traduzione letteraria di un ambiente sociale, né alla considerazione storica di quella data esperienza umana né buona né cattiva agli effetti dell’arte. Cosí condanna i crepuscolari: «Era una triste genia di poeti che sentiva, come accade sempre nelle età di decadenza, la propria malattia e che, a curarla o ad esasperarla, si rifugiava nelle piccole cose quotidiane...», accennando anche ad un motivo di piú ampia polemica contro la poesia moderna: «E deve ancora una volta (il critico imparziale) concludere, a soddisfazione e a conforto della sua fede, che senza una ferma decisa personalità, senza una fede, una qualsiasi fede purché sicura e sincera, senza la disciplina e senza il freno dell’arte, la poesia non trova mai la forza di spiegarsi e di fiorire sicura e a conforto e a letizia degli uomini».

Questa mancanza di serietà storica renderebbe inutile lo studio di una critica che poi viceversa si affeziona talmente al proprio malato da valutarne alcuni particolari aspetti piú di quanto effettivamente meritino. Tanto prevale la solita predilezione dell’elemento emotivo meritino e d’altra parte moralistico di fronte a quello intrinsecamente umano e poetico.

Dopo una introduzione in cui vengono accennati i modelli dei crepuscolari (Jammes, Verlaine, parte mal precisata di D’Annunzio; e dunque “décadents” piú che i simbolisti; – e la derivazione pascoliana?) si aprono quattro piccole monografie che, tra accurate descrizioni dei “motivi” psicologici spirituali della scuola, segnalano assai fiaccamente (e il frasario critico monotono e consuetudinario limita il suo valore indicativo: limpida purezza, casta semplicità) l’evoluzione poetica di Corazzini, Gozzano, Moretti e Govoni. I due saggi maggiori su Gozzano e Corazzini scorrono volenterosi e descrittivi senza dar materia di osservazioni o di ritagli che vadano per densità oltre questa conclusione su Corazzini: «È questa di fanciullo, la definizione di chiunque ha scritto di lui ed è veramente quella che meglio esprime la semplicità di spirito, la purezza quasi virginale del suo animo, il timbro esile e casto della sua poesia. Un fanciullo che alla morte imminente non aveva nulla da opporre, ma ripiegava smarrito il capo – cosí col capo reclinato sulla spalla, ce lo rappresentano tutti i suoi amici – e si confortava solo nel trovare diffusa nelle cose la sua medesima tristezza».

Quanto a Moretti, sembrano inutili molte pagine allo sviluppo di una premessa che avverte «Gran parte dell’opera di M. Moretti non regge a un serio esame critico», per poi postulare una infedeltà alla ispirazione poetica fondamentale che non supera la discreta sorte d’una applicazione di programma e d’una scrittura docile, consolatoria. Una volta notata la natura diffusa, frenata solo da una incapacità a coagulare oltre un alone emotivo e letterario, non occorreva cercare un positivo isolandolo in esempi puntuali e gratuiti come questo: «Sono modeste e soffocate tragedie osservate con la sensibilità propria del Moretti: “La Barberina s’alzò per andare incontro al suo Mauro, il quale non la vide neppure e continuò a parlare”», dove l’intrusione d’una eterogenea commozione del critico è piú che evidente; né si poteva fare di Moretti il rappresentante della tendenza del romanzo moderno, della sua liricità, acostruttività, amoralità: «Il romanzo italiano,che con A. Manzoni era sorto da tutta una complessa e profonda visione del mondo, che con i romantici s’era ingagliardito di pugnaci ideali patriottici o sociali, che ancora col Verga era corroborato dai miti sacri della famiglia e della roba, si sgretola poi per lo stesso sgretolarsi della coscienza morale e delle capacità di pensiero dei nostri scrittori; un mondo che non sia organicamente unificato da una fede o da un pensiero centrale, non potrà certo riflettersi in un organico romanzo: romanzi e novelle del secolo nostro sono stati quasi sempre, nonostante la loro apparenza narrativa, opere liriche, effusioni o trasfigurazioni di un unico lirico affetto. È questa la conclusione a cui conduce lo studio di ogni opera narrativa di questo trentennio; è questa la conclusione a cui conduce lo studio di M. Moretti».

Di Govoni, visto entro uno schema frigido di «semplicità e decadentismo, sanità e lussuria», limitato assai bene nel suo sostanziale secentismo («Ed anche ciò, non è tanto simbolismo, cioè visione o intuizione di un mondo nascosto dietro la ruvida scorza apparente e quindi organica ed intellettuale visione delle cose, quanto barocco travestimento di ogni singola cosa, senza nesso, in un continuo trascorrere dall’una all’altra metafora, in una dispersione dell’immaginazione come già del sentimento e della morale»), si vuol pure salvare la qualità di poeta: la solita sanità delle cose, il noioso travisamento di fotografia e arte pacificata.

In appendice un saggio su Serra conferma la posizione inutile del P. di fronte alla letteratura contemporanea e l’accettazione del peggio entro i termini del suo equivoco. E dunque anche per Serra, sentito piú come artista che come critico, si parla di «un irrazionalismo decadente vissuto però con una sincerità cosí dolorosa, con uno strazio cosí tormentato, con una cosí viva e complessa ricchezza di interessi spirituali da riscattarsi della sua femminile morbosità per farsi degno di simpatia e di rispetto». È in sostanza la ripresa sfocata della tesi del Momigliano («Nuova Italia», 12, 30 dic. ’34, e poi «Storia della Letteratura»), che viveva però nella complessità d’uno dei piú sensibili temperamenti critici della nostra letteratura.